Big Pharma sotto pressione: i dazi USA ridisegnano il settore
Il settore farmaceutico, tradizionalmente percepito come difensivo, si trova oggi al centro di una nuova tensione commerciale. Donald Trump ha annunciato dazi fino al 100% sui farmaci di marca importati negli Stati Uniti a partire dal 1° ottobre, con esenzioni solo per chi costruirà stabilimenti in America. Una misura che mette in discussione le catene globali del valore e che l’Europa guarda con attenzione, confidando nel tetto al 15% promesso per i propri prodotti.
Il contesto del mercato farmaceutico globale
Con un giro d’affari che supera i 1.500 miliardi di dollari a livello mondiale, il farmaceutico è uno dei settori più rilevanti e strategici dell’economia globale. Gli Stati Uniti rappresentano il mercato principale, assorbendo oltre il 40% della spesa mondiale in farmaci: una centralità che rende qualsiasi intervento politico a Washington capace di condizionare l’intera industria.
Le società europee, da Novo Nordisk a Roche, da Sanofi ad AstraZeneca, dipendono in larga misura dalle vendite sul mercato americano, che spesso costituiscono la fetta più redditizia dei loro bilanci. La combinazione tra prezzi più alti negli USA e capacità di innovazione nel segmento dei farmaci di marca fa sì che l’export verso questo Paese sia cruciale per la sostenibilità delle strategie globali.
Negli ultimi anni, tuttavia, il settore ha dovuto affrontare nuove pressioni: il tema della sovranità sanitaria dopo la pandemia, i crescenti investimenti in biotech e farmaci innovativi, ma anche la spinta verso un reshoring produttivo che riduca la dipendenza da Asia e altre aree geopoliticamente sensibili. I dazi annunciati da Trump si inseriscono proprio in questa cornice: più che una misura puramente commerciale, appaiono come un tassello di una politica industriale mirata a riportare la produzione negli Stati Uniti.
I dazi annunciati da Trump: dettagli e meccanismi di esenzione
L’annuncio di Donald Trump non lascia spazio a dubbi: a partire dal 1° ottobre 2025, i farmaci di marca importati negli Stati Uniti saranno soggetti a dazi fino al 100%. L’obiettivo dichiarato è duplice: proteggere l’industria nazionale e spingere le multinazionali a investire in capacità produttiva sul suolo americano.
Non tutti i prodotti, però, saranno colpiti nello stesso modo. Restano esclusi, almeno per ora, i farmaci generici, mentre per i brand-name l’unica possibilità di evitare il dazio è dimostrare l’avvio di nuovi impianti produttivi negli USA. La definizione di “esenzione” resta tuttavia vaga: basterà aver posato la prima pietra (“breaking ground”), o sarà necessario dimostrare un cantiere già avviato? Sono dettagli che la Casa Bianca dovrà chiarire, ma che intanto creano incertezza tra gli operatori.
Dal lato europeo, Bruxelles ha sottolineato che per i farmaci provenienti dall’UE continuerà a valere un tetto massimo del 15%, frutto dei negoziati commerciali in corso. Una notizia accolta con sollievo, ma che non elimina del tutto i timori: l’effettiva applicazione delle regole resta soggetta a margini di discrezionalità, e l’atteggiamento protezionista degli Stati Uniti potrebbe irrigidirsi ulteriormente in caso di tensioni politiche.
La reazione dei mercati è stata immediata: i principali titoli farmaceutici europei hanno perso terreno in Borsa dopo l’annuncio, segnalando che gli investitori temono un impatto significativo sui margini, soprattutto per quelle società con maggiore esposizione al mercato americano.
Impatto sul business farmaceutico: rischi e scenari
Le misure annunciate da Trump rischiano di avere effetti tangibili e immediati sulle big pharma, in particolare europee e asiatiche. Con gli Stati Uniti che rappresentano il mercato più redditizio al mondo per i farmaci di marca, un dazio al 100% potrebbe erodere significativamente i margini e rendere meno competitivo l’export.
Il primo rischio è quello della compressione dei margini: molte società, come Roche, Novartis, Sanofi o AstraZeneca, generano dal 35% al 45% dei loro ricavi sul mercato statunitense. In caso di aumento dei costi doganali, si troverebbero davanti a un bivio: assorbire l’impatto nei bilanci o trasferirlo sui consumatori, con il rischio di rallentare le vendite.
La dimensione del problema è notevole: l’export farmaceutico dell’Unione Europea verso gli Stati Uniti vale oltre 100 miliardi di euro l’anno. Applicare dazi punitivi su questo flusso commerciale significherebbe mettere a rischio decine di miliardi di valore.
A questo si aggiunge la possibile discontinuità nelle catene di fornitura. La filiera farmaceutica è fortemente globalizzata, con principi attivi prodotti in Asia, formulazioni in Europa e commercializzazione negli USA. Un regime di dazi punitivi aumenterebbe i costi logistici e burocratici, mettendo sotto pressione l’intero ciclo produttivo.
Anche la Borsa ha reagito con nervosismo: subito dopo l’annuncio, l’indice STOXX Europe 600 Health Care ha perso circa il 2–3% in un solo giorno, con cali più marcati per colossi come Roche e Novartis. Un segnale chiaro che gli investitori vedono la misura non come semplice retorica politica, ma come una minaccia concreta ai bilanci del settore.
Guardando al medio periodo, lo scenario resta incerto. Le società più esposte potrebbero accelerare la costruzione di impianti negli Stati Uniti per beneficiare delle esenzioni, mentre altre potrebbero puntare a una diversificazione geografica dei ricavi, rafforzando la presenza in Asia e nei mercati emergenti. In ogni caso, la certezza è una sola: il baricentro della strategia industriale farmaceutica rischia di spostarsi ancora più vicino a Washington.
Opportunità e strategie di adattamento
Se da un lato i dazi di Trump generano incertezza, dall’altro aprono spazi di manovra che le big pharma potrebbero sfruttare a proprio vantaggio. La condizione di esenzione, legata alla costruzione di nuovi stabilimenti negli Stati Uniti, può trasformarsi in un incentivo a rafforzare la presenza industriale sul suolo americano, creando un rapporto più stretto con il mercato più ricco e dinamico del settore.
Non è un caso che molte società abbiano già annunciato piani di investimento miliardari negli USA: secondo stime di settore, negli ultimi tre anni le big pharma hanno avviato progetti produttivi per oltre 20 miliardi di dollari, in particolare nei comparti biologici e oncologici. Questo movimento, seppur costoso nel breve, potrebbe tradursi in un vantaggio competitivo nel medio-lungo periodo, garantendo accesso preferenziale al mercato e riducendo la vulnerabilità a futuri scossoni protezionistici.
Un’altra opportunità è la diversificazione geografica. L’Asia rappresenta ormai circa il 25% della domanda mondiale di farmaci e l’America Latina, pur più piccola, cresce a ritmi superiori al 6% annuo. Spostare parte dell’attenzione verso queste aree significa bilanciare l’eccessiva dipendenza dagli Stati Uniti e intercettare mercati in forte espansione.
Infine, l’innovazione resta la chiave. Le società che investono in ricerca e sviluppo, che già oggi assorbe in media oltre il 20% dei ricavi dei principali gruppi farmaceutici, hanno più leve per difendere i margini e differenziarsi dalla concorrenza. I farmaci biologici, ad esempio, sono attesi crescere con un CAGR vicino al 10% nei prossimi cinque anni, creando nuove nicchie ad alto valore aggiunto.
In sintesi, i dazi americani rappresentano un ostacolo importante, ma possono anche accelerare un processo di trasformazione del settore: da filiera globale a sistema più integrato e resiliente, in cui solo i player meglio capitalizzati e più innovativi sapranno trasformare la minaccia in opportunità.
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