Prospettive degli investitori: Aggiornarsi
L'economia globale è in piena evoluzione. Tagli dei tassi d'interesse, spostamenti delle bilance commerciali e squilibri strutturali caratterizzano l'attuale contesto di mercato. Mentre la Fed allenta i tassi di interesse e i mercati emergenti si rafforzano, l'eurozona si dimostra stabile. Ma quanto è sostenibile questo nuovo equilibrio nei mercati globali?
Controllo attraverso dati più deboli
A settembre, i dati sul mercato del lavoro USA più deboli del previsto si sono contrapposti a un’inflazione sostenuta. Focalizzati sull’occupazione, i mercati hanno scontato una ricalibrazione della politica monetaria.
Solitamente il mese appena trascorso risente dell’«effetto settembre», la tendenza storica dell’azionario a sotto performare, forse legata al ribilanciamento dopo la pausa estiva. Ma stavolta il motore non ha avuto intoppi: l’azionario ha registrato un rally, trainato da USA e mercati emergenti. Il reddito fisso ha beneficiato del calo dei rendi menti dei Treasury USA e di una leggera contrazione degli spread creditizi. Lo stesso vale per le materie prime, con l’oro sopra i USD 3’800 all’oncia. Paradossalmente, è stata la debolezza dei dati ad alimentare il rally. Al report deludente sull’occupazione di luglio è seguito un agosto ancora peggiore: 22’000 nuovi posti di lavoro contro i 75’000 attesi, con revisioni al ribasso che hanno evidenziato 911’000 occupati in meno nei 12 mesi fino a marzo rispetto alle stime iniziali, mentre il tasso di disoccupazione è salito al 4,3%. In risposta, la Fed ha tagliato i tassi di 25 pb. Stephen Miran, governatore della Fed nominato dal Presidente USA Donald Trump e insediatosi solo un giorno prima della decisione sui tassi, è stato l’unico a dissentire, pronunciandosi invece per un taglio maggiore di 50 pb. In prospettiva, si ritiene che la crescita globale migliorerà grazie a una politica monetaria più accomodante e ai tagli dei tassi già effettuati che stanno ancora filtrando nell’economia reale. Negli USA, in particolare, sono scontati altri tagli a breve e all’orizzonte si intravedono nuovi stimoli fiscali. Insieme alla «Big, Beautiful Bill», sono possibili ulteriori misure di stimolo in Europa e in Cina. E con l’avvicinarsi delle elezioni di metà mandato nel novembre 2026, Trump potrebbe adottare un approccio più orientato alla crescita.
Alla ricerca dell’equilibrio perduto
Uno dei temi oggi dominanti nell’economia globale sia quello della mancanza di equilibrio – che si tratti di scambi commerciali, di consumi, di politica fiscale, di investimenti o di valute. Queste distorsioni possono minare la stabilità dei singoli Paesi e avere ripercussioni anche al di là dei confini nazionali, mettendo sotto pressione l’economia globale.
Ad aprile, in occasione di un evento dell’Institute of International Finance a cui hanno partecipato i ministri delle finanze e i banchieri centrali di tutto il mondo, il Segretario del Tesoro USA Scott Bessent ha dichiarato che le istituzioni di Bretton Woods – il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale – si sono allontanate dalla loro missione originaria. «Le istituzioni di Bretton Woods sono state create per ripristinare e preservare l’equilibrio. E questo resta il loro obiettivo. Eppure, ovunque guardiamo all’interno dell’attuale sistema economico internazionale, vediamo squilibrio.»
Secondo la Multi Asset Boutique si tratta di una critica fondata. Il panorama economico attuale è influenzato da una serie di squilibri globali. Uno dei più rilevanti è incorporato nella componente «esportazioni nette» della formula del prodotto interno lordo (PIL): PIL = spesa al consumo + spesa pubblica + esportazioni nette + investimenti totali. Le esporta zioni nette rappresentano la differenza tra il valore complessivo dei beni e servizi esportati da un Paese e il valore complessivo di quelli importati. Un valore positivo delle esportazioni nette, noto come surplus commerciale, indica che un Paese vende all’estero più di quanto acquista, con conseguente afflusso di denaro nell’economia. Un valore negativo, definito deficit commerciale, riflette la situazione opposta: il Paese importa più di quanto esporta, determinando un deflusso di risorse dall’economia. Le esportazioni nette sono un indicatore chiave della bilancia commerciale e della solidità finanziaria di una nazione, svolgendo un ruolo significativo nel determinare la do- manda aggregata e la stabilità economica complessiva. Escludendo la Prima guerra mondiale, il commercio globale non è mai stato tanto squilibrato come nel XXI secolo (grafico 1). Paesi come Germania, Giappone e Cina registrano consistenti surplus commerciali, facendo forte affidamento sulla domanda estera per sostenere la propria crescita interna. Al contrario, economie come Stati Uniti, India e Regno Unito mantengono deficit cronici, fungendo di fatto da «consumatori di ultima istanza» dei beni globali.
Questi squilibri commerciali creano persistenti vulnerabilità. Per i Paesi in surplus, l’eccessiva dipendenza dalle esportazioni li espone agli shock della domanda estera. Per i Paesi in deficit, una prolungata dipendenza dalle importazioni erode le basi industriali nazionali e amplia le disuguaglianze di reddito attraverso l’offshoring dei posti di lavoro. Oltre all’aspetto eco nomico, la dipendenza dalle importazioni di minerali critici – come quelli impiegati nella produzione di semiconduttori – ha sollevato preoccupazioni anche per la sicurezza nazionale.
Se si pensa all’erosione delle basi industriali nazionali, emergono inoltre forti squilibri nell’industria manifatturiera globale. Dal suo ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001, la Cina ha consolidato la propria posizione dominante nella catena del valore manifatturiero, arrivando a rappresentare quasi il 30% dell’output mondiale nel 2023. Per contro, la quota degli Stati Uniti è scesa a circa il 17%, da oltre il 25% regi strato nei primi anni 2000. Non sorprende quindi che il Donald Trump abbia espresso preoccupazione per il processo di deindustrializzazione del Paese, mostrando un forte interesse a riportare posti di lavoro manifatturieri sul territorio nazionale.
Un altro squilibrio riguarda i consumi privati. Ad esempio, il consumatore statunitense tende a spendere molto denaro, non solo con riferimento all’economia nazionale – dove la spesa delle famiglie rappresenta circa due terzi del PIL – ma anche rispetto ad altri Paesi (grafico 2). A questo livello elevato di spesa si affianca un tasso di risparmio relativamente basso. La Cina si trova nella situazione opposta. Le famiglie cinesi presentano un tasso di risparmio nazionale che nel 2023 ha superato il 40% del PIL (grafico 3), attestandosi ben sopra la media globale.
Il consumatore statunitense non è l’unico a mostrare una forte propensione alla spesa – anche il governo stesso continua a spendere ben oltre le proprie entrate, spingendo il debito nazionale su livelli senza precedenti. Qui entrano in gioco gli squilibri fiscali, nello specifico i deficit di bilancio. A gennaio, il Congressional Budget Office ha stimato che il disavanzo federale raggiungerà USD 1’900 miliardi quest’anno, con il debito pubblico destinato a salire al 118% del PIL entro il 2035. Anche questi squilibri generano delle vulnerabilità. Un debito pubblico elevato può ridurre gli investimenti privati e far aumentare i costi di finanziamento. Già oggi, gli interessi passivi sul debito statunitense figurano tra le principali voci del bilancio federale. Può inoltre avere ripercussioni su scala globale, influenzando i tassi di interesse e la fiducia degli investi tori in tutto il mondo. Detto ciò, squilibri fiscali si riscontrano anche altrove: molti Stati membri dell’Unione Europea affrontano infatti difficoltà analoghe.
Seguono poi gli squilibri negli investimenti. In questo caso, il termine «investimenti» non si riferisce necessaria mente a quelli dei singoli consumatori nei mercati finanziari, ma a quanto l’economia nel suo complesso destina alla capacità produttiva. Un indicatore comunemente utilizzato è la formazione lorda di capitale, espressa in percentuale del PIL. Secondo i dati della Banca Mondiale (2023), la formazione lorda di capitale in Cina supera il 41% del PIL, superando nettamente le altre economie emergenti (India: 33%) e anche le economie avanzate (Svizzera: 26%; Stati Uniti e Germania: 22%; Regno Unito: 17%).
Un’ulteriore fonte di preoccupazione sono gli squilibri valutari e i disallineamenti nei mercati dei cambi. Quando la valuta di un Paese è sopravvalutata o sottovalutata rispetto ad altre, può distorcere i flussi commerciali e i pattern di investimento. Una valuta sottovalutata, ad esempio, può rendere le esportazioni più convenienti e le importazioni più costose, conferendo al Paese un vantaggio competitivo non equo. Gli squilibri valutari complicano inoltre la politica monetaria, poiché le banche centrali devono bilanciare gli obiettivi di stabilizzazione dei cambi con quelli di politica economica interna. Le economie asiatiche sono state spesso accusate di mantenere artificialmente deboli le proprie valute. Il Tesoro statunitense ha ufficialmente designato la Cina come manipolatore della valuta nel 2019 e il Vietnam nel 2020. Il Giappone, pur non essendo stato definito tale negli ultimi anni, è stato talvolta criticato per le proprie politiche monetarie, come il quantitative easing della Bank of Japan, che avrebbero indirettamente indebolito lo yen. Accuse di questo tipo non si limitano all’Asia. La
Svizzera, da tempo nella watchlist del Tesoro (dal 2016), è stata formalmente designata come manipolatore nel 2020. All’altro estremo dello spettro si collocano invece gli Stati Uniti, dove la sopravvalutazione del dollaro è tornata su livelli prossimi a quelli registrati dopo l’Accordo del Plaza degli anni ’80.
Infine, il ritorno delle politiche protezionistiche negli ultimi anni ha ulteriormente complicato lo scenario economico globale. Il protezionismo può assumere forme diverse: i sussidi e gli obblighi di trasferimento di tecnologia della Cina, le misure antidumping e i rigidi standard normativi dell’Unione Europea, oppure i dazi all’importazione di prodotti agricoli della Svizzera, solo per citare alcuni esempi.
Come si potrebbe ristabilire l’equilibrio (almeno in teoria)?
Quando un’economia consuma più di quanto investe, deve fare affidamento sulle importazioni per colmare il divario. Al contrario, quando consuma meno di quanto investe, esporta l’eccedenza. In sostanza, una volta che consumi e investimenti (inclusa la produzione manifatturiera) tornano a livelli normali, anche la bilancia commerciale tende a normalizzarsi o riequilibrarsi. Per l’economia statunitense, trainata dai consumi, ciò richiederebbe una ricalibrazione per ridurre l’eccesso di domanda interna. Parallelamente sarebbe necessario stimolare una maggiore domanda a livello globale, in particolare in Europa, Cina e Giappone.
La realizzazione di questo obiettivo è tutt’altro che semplice, ed è complicata da una combinazione di sfide globali e problematiche specifiche di ciascun Paese. A livello globale, la difficoltà consiste nel bilanciare il ripristino dell’equilibrio e il rischio di far precipitare l’economia in uno stato caotico di protezionismo e de-globalizzazione.
Per quanto riguarda i singoli Paesi, gli Stati Uniti affrontano tre sfide principali: 1) incentivare gli investimenti domestici, 2) ridurre il deficit fiscale, 3) contenere l’eccesso di consumi. Per incoraggiare gli investimenti domestici non basterà fare pressione sui partner commerciali affinché «producano in America». A nostro avviso, sarà necessaria anche una decisa modernizza zione ed espansione delle infrastrutture nazionali. Per quanto riguarda la riduzione del deficit di bilancio, la guerra commerciale fornisce un sostegno, almeno in parte. Secondo il Dipartimento del Tesoro, il disavanzo federale si è ridotto di USD 35 miliardi ad agosto (−9% su base annua), perché i dazi imposti da Trump hanno incrementato di USD 22,5 miliardi le entrate doganali. Detto questo, i dazi da soli difficilmente basteranno a risolvere i problemi di bilancio statunitensi. Resta inoltre un punto di domanda su come gli Stati Uniti intendano ridurre l’eccesso di
consumi (i dazi potrebbero aiutare marginalmente, perché rappresentano una sorta di tassa sui consumatori).
In Cina, la sfida è quella di contenere l’eccesso di investi menti e di capacità produttiva senza far deragliare l’economia, in particolare nel settore immobiliare. Un tempo definito «la più grande asset class del mondo», il mercato immobiliare cinese è in caduta ormai da cinque anni, senza segnali concreti di ripresa. Le autorità cinesi sono riluttanti a incentivare comportamenti di azzardo morale (ossia spingere developer fortemente indebitati ad assumere ulteriori rischi confidando in salvataggi pubblici). Tuttavia, intervengono ripetutamente per sostenere il settore, non volendo rischiare un collasso incontrollato.
Oltre all’immobiliare, il problema dell’eccesso di investi menti interessa anche l’industria automobilistica cinese. Secondo un report di Bloomberg, oltre metà della capa città produttiva del Paese è rimasta inutilizzata nel 202513. Situazione analoga per l’industria solare, che lo scorso anno ha ridotto di quasi un terzo la forza lavoro, con perdite nella catena manifatturiera pari a circa USD 40 miliardi. Di recente la Cina ha preso i primi provvedimenti per affrontare queste problematiche: nell’ambito della campagna contro l’involuzione, le autorità hanno promesso di limitare la sovracapacità e le conseguenti guerre di prezzo tra produttori.
Un’altra sfida cruciale è quella di convincere le famiglie cinesi a risparmiare di meno e spendere di più. Il problema deriva non solo dalla situazione del mercato immobiliare, in cui molti cinesi relativamente benestanti hanno investito per incrementare il loro patrimonio, ma anche dal mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto il 17,8% a luglio, alimentando l’insicurezza del reddito e le preoccupazioni sulla solidità del sistema di previdenza sociale cinese. Per stimolare i consumi interni, la Cina potrebbe dover introdurre meccanismi di trasferimento di reddito ricorrenti dalle fasce più ricche a quelle più povere (grafico 4).
Un’ultima grande sfida per Pechino riguarda la gestione della valuta. Nonostante l’impegno di lunga data a favorire un maggiore ruolo del mercato nello stabilire il cambio Grafico 4:
Una sfida della Cina: è quella di allentare la stretta presa sulla propria valuta. Nonostante anni di promesse di consentire una maggiore influenza del mercato sullo yuan, la People’s Bank of China continua a intervenire nel mercato valutario. Sebbene il tasso di cambio dello yuan sia diventato un po’ più volatile poiché la Cina ha leggermente allentato la sua presa, il regime rimane rigidamente controllato).
Per quanto riguarda l’Eurozona, la principale difficoltà è quella di superare la cronica riluttanza a investire. In termini pratici, un parametro utile è la formazione netta di capitale fisso in percentuale del PIL. Prima della crisi finanziaria globale (GFC), la quota europea degli investi menti si allineava a quella statunitense, oscillando tra il 6 e l’8% del PIL. Dopo la crisi, tuttavia, le imprese europee sono divenute meno propense a investire. Nel 2024, la quota dell’Eurozona era scesa attorno al 3%, mentre quella statunitense era risalita quasi al 6% (ancora sotto i livelli pre-GFC, ma quasi il doppio rispetto all’Europa).
Un ribilanciamento è probabile, ma portata e tempistiche sono incerte
Le conclusioni? L’attuale sistema economico internazionale è caratterizzato da forti squilibri (grafico 5). Quando questi diventano troppo marcati, rischiano di compromettere la solidità dell’economia (es. gli Stati Uniti consumano troppo, la Cina sovvenziona eccessivamente, l’Europa investe troppo poco). Nel tempo, gli squilibri tenderanno inevitabilmente a ridursi, in parte per necessità. Gli Stati Uniti, ad esempio, dispongono di una capacità fiscale limitata per stimolare l’economia rispetto ad altre regioni. Sebbene l’amministrazione in carica stia cercando di gestire gli squilibri, si ritiene che dovrà muoversi con cautela, perché l’introduzione di barriere commerciali eccessive rischia di minare la crescita economica non solo negli USA, ma anche a livello globale. Gli altri governi stanno introducendo misure di politica interna per favorire un ribilanciamento, ma il processo sarà probabilmente graduale. Il ripristino dell’equilibrio nell’economia mondiale è possibile, ma non può certo avvenire dall’oggi al domani.
Allentare i freni
La Fed ha ridotto i tassi per la prima volta dal 2024 segnalando altri due tagli quest’anno, mentre i mercati prevedono interventi ancora più massicci fino al 2026.
A settembre, la Fed ha ridotto il tasso di riferimento di 25 pb al 4,00 – 4,25%, il primo taglio da dicembre 2024, citando un indebolimento del mercato del lavoro: nuovi occupati in calo, disoccupazione in aumento e indicatori prospettici che mostrano una minore domanda di lavoratori. L’inflazione resta sopra il 2%, ma la Fed ha segnalato un aumento dei rischi legati all’occupazione. Le proiezioni indicano altri due tagli entro l’anno, che porterebbero il tasso sui Fed Fund al 3,50 – 3,75%.
In futuro, la politica monetaria resterà dipendente dai dati, con aggiustamenti legati all’andamento di inflazione e occupazione. Ma i mercati scontano altri 50 pb di tagli entro il 2026, oltre le proiezioni della Fed stessa. Anche il «Fed floor» (grafico 1), il minimo atteso dei tassi nei prossimi tre anni, si è mosso al ribasso.
I mercati creditizi scontano uno scenario quasi perfetto in un mondo imperfetto. Gli spread investment grade e high yield sono ai minimi pluridecennali e offrono poco margine in caso di deterioramento dei fondamentali. Il mercato appare stranamente compiacente, con premi al rischio minimi nonostante le crepe sempre più evidenti nel mercato del lavoro. Questo disallineamento solleva dubbi sulla sostenibilità delle valutazioni. Gli investitori riconoscono l’indebolimento del quadro macro, ma gli spread continuano a ridursi grazie a una forte domanda tecnica, a flussi resilienti e fondamentali ancora solidi.
Grafico 2 mostra la relazione tra l’option-adjusted spread iniziale e gli extra rendimenti a 12 mesi nel credito investment grade, usando 15 anni di dati mensili. Ogni punto rappresenta lo spread (asse x) rispetto all’extra rendimento nell’anno successivo (asse y). La relativa curva polinomiale18 mostra come, in media, gli extra rendimenti variano in funzione degli spread iniziali: con spread iniziali contenuti, gli extra rendimenti futuri sono spesso piatti o negativi, poiché il rischio di ampliamento supera il potenziale di ulteriore compressione. A questi livelli ridotti, la possibilità di un’ulteriore compressione è minima, e anche un leggero ampliamento porterebbe a perdite. In sintesi, i forti rialzi un tempo disponibili con spread più ampi sono fuori discussione. Per un ulteriore aumento degli extra rendimenti sono necessari spread ancora più compressi.
Le azioni dei mercati emergenti nella corsia di sorpasso
Quando si parla di mercati azionari globali, il settore tecnologico è ancora al posto di guida. Negli Stati Uniti ciò non sorprende: la Silicon Valley ha spesso trainato numerosi rally. Rappresenta invece una novità nei mercati emergenti (ME), dove i listini hanno beneficiato in misura significativa di un ristretto gruppo di società tecnologiche asiatiche.
Gli indici azionari globali hanno toccato livelli record a settembre, sostenuti dalle aspettative degli investitori sui tagli dei tassi da parte della Fed e dal flusso di notizie positive dall’industria tecnologica. Nell’indice S&P 500, la capitalizzazione di mercato di Alphabet ha raggiunto USD 3’000 miliardi dopo una sentenza antitrust favorevole. Oracle ha guadagnato oltre il 40% in un solo giorno, complice la notizia di un forte incremento del portafoglio ordini, alimentato dalla domanda robusta di infrastrutture cloud per l’intelligenza artificiale (IA). E le azioni Intel sono balzate di quasi il 30% in un solo giorno dopo l’annuncio di una partnership con Nvidia in uno sforzo congiunto per sviluppare unità di elaborazione centrale (CPU) per i data center dedicati all’IA.
Ma i ME non sono certo rimasti a guardare: l’indice MSCI Emerging Markets ha guadagnato quasi il 30% da inizio anno (in USD), superando il picco del 2021 (grafico 1). La Multi Asset Boutique ritiene che i motivi principali siano due. Innanzitutto, la politica monetaria cinese rimane di supporto, con la People’s Bank of China che mantiene un orientamento moderatamente accomodante. In secondo luogo, i fondamentali giocano un ruolo cruciale: la performance dell’azionario emergente si è concentrata in una dozzina di società tecnologiche asiatiche fortemente esposte all’IA (grafico 2), che negli ultimi trimestri hanno registrato utili costantemente superiori alle attese. Nel complesso, a queste società è attribuibile metà della performance da inizio anno dell’indice – una configurazione simile al mercato USA, dove meno di 10 titoli tecnologici / legati all’IA rappresentano quasi il 30% della capitalizzazione complessiva dell’indice e circa il 60% della performance da inizio anno.
Questa concentrazione, insieme all’accelerazione nella corsa per l’IA, mostra la crescente influenza del settore tecnologico sui mercati azionari globali – un trend che finora sembrava confinato agli USA, ma che potrebbe innescare un cambiamento strutturale nella leadership. Sottolinea inoltre, secondo noi, la necessità di monitorare la capacità delle aziende di monetizzare l’enorme spesa in conto capitale che stanno affrontando, in un contesto di concorrenza crescente e dinamiche di mercato sempre più rapide che potrebbe portare alla ribalta nuovi leader e comprimere la redditività di altri. Un esempio emblematico è la recente disputa tra Stati Uniti e Cina sull’offerta di chip IA di Nvidia.
La corsa dell’argento
L’oro è il campione indiscusso tra i metalli preziosi: bene rifugio per eccellenza e riserva di valore. L’argento, spesso considerato il suo fratello minore, è più volatile e vulnerabile agli ostacoli economici. Ma di recente ha premuto forte sull’acceleratore.
L’oro ha continuato a segnare nuovi record, superando USD 3’800 all’oncia a settembre (+46% da inizio anno). Un catalizzatore chiave sono stati i dati più scarsi del previsto. Visto l’indebolimento del mercato del lavoro USA – due report mensili consecutivi deludenti sull’occupa - zione e una revisione annuale che ha mostrato 911’000 nuovi occupati in meno nei 12 mesi fino a marzo rispetto alle stime iniziali – gli investitori hanno rivisto al rialzo le aspettative sui tagli dei tassi negli USA. In genere, tassi più bassi stimolano la domanda di asset non fruttiferi come l’oro.
Hanno contribuito anche l’indebolimento del dollaro e la domanda sostenuta dalle banche centrali: la Cina, acquirente chiave, ha continuato ad aggiungere oro alle sue riserve per il decimo mese consecutivo. Il tentativo del Presidente Trump di licenziare la Governatrice della Fed Lisa Cook (rimasto infruttuoso fino al 1. ottobre 2025) ha contribuito al rally, alimentando le preoccupazioni legate all’indipendenza dell’istituto.
In questo contesto, il fratello minore dell’oro ha premuto forte sull’acceleratore, superando USD 46 all’oncia, un livello che non si vedeva dal 2011, e portando il rialzo da inizio anno a quasi il 60% (grafico 1). Vari fattori hanno contribuito a questa sovraperformance. In genere, l’argento resta indietro nelle fasi rialziste, ma spesso risale quando aumenta l’interesse per i metalli. La domanda d’investi mento (retail e istituzionale) tramite significativi afflussi nei fondi negoziati in borsa (ETF) sta alimentando ulteriormente il rally recente (grafico 2).
Sul fronte tecnico, il rapporto oro-argento – il numero di once d’argento necessarie per acquistare un’oncia d’oro – si è ridotto, perché l’argento ha iniziato a recuperare terreno. Per gli investitori che seguono questo indicatore, l’argento è apparso «economico» rispetto all’oro, assumendo una nuova attrattiva19. Tuttavia, la volatilità dell’argento è una lama a doppio taglio: può determinare ampi rialzi, ma anche cali altrettanto repentini. La domanda industriale rappresenta il 55% della domanda totale d’argento, per tanto i prezzi sono più vulnerabili alle battute d’arresto dovute al calo delle aspettative sui tagli dei tassi o al rallentamento della domanda industriale. Sarà inoltre fondamentale monitorare la domanda di gioielli, che rappresenta circa il 17% della domanda totale d’argento. L’associazione The Silver Institute prevede per quest’anno una flessione del 6%.
La resilienza dell’euro e del franco svizzero
Crescita solida, inflazione in calo e un outlook politico stabile continuano a favorire l’euro. Con una Fed sempre più accomodante, il calo dei differenziali dei tassi riduce il vantaggio del dollaro e sostiene la moneta unica.
L’euro si è mosso al rialzo soprattutto a inizio anno, quando i mercati hanno scontato i tagli della Fed e i dati dall’Eurozona hanno superato le attese. In estate, il momentum si è attenuato a causa dei dazi e del migliora mento dei dati statunitensi, ma il trend rialzista resta intatto. Le proiezioni della Banca Centrale Europea (BCE) indicano un’inflazione vicina al target e una crescita intorno all’1 – 1,2% fino al 2026. Con l’inflazione in calo e un’attività economica resiliente, è probabile che la BCE abbia concluso il suo ciclo di allentamento. Per contro, la Fed dovrebbe proseguire anche il prossimo anno, favo rendo così l’euro (grafico 1). Anche se i rendimenti negli USA restano più alti, in termini assoluti, il calo dei differenziali dei tassi riduce il vantaggio del dollaro e supporta la moneta unica.
Quest’anno il franco svizzero ha guadagnato oltre il 12% sul dollaro rimanendo stabile rispetto all’euro e, nono stante 175 pb di tagli ai tassi da inizio 2024, si conferma resiliente. L’inflazione è ridotta e vicina al limite inferiore del target della Banca Nazionale Svizzera (BNS), mentre il franco beneficia dei fondamentali del Paese, tra cui debito pubblico ridotto, una solida posizione esterna e credibilità istituzionale.
In un mondo sempre più sensibile ai rischi fiscali e alla sostenibilità del debito, il franco si distingue. I mercati hanno penalizzato valute come la sterlina britannica e lo yen giapponese quando i rendimenti a lungo termine sono saliti per le preoccupazioni di bilancio, mentre il franco ha attratto flussi non solo come valuta rifugio, ma anche come alternativa strutturalmente solida. La BNS intende continuare a concentrarsi sull’inflazione, non sulla crescita. Se necessario, potrebbe riportare i tassi sotto lo zero (in passato ha già sorpreso i mercati). È anche possibile un intervento sul mercato dei cambi (FX), ma pur essendosi dichiarata pronta, la BNS è rimasta quasi inattiva negli ultimi cinque trimestri (grafico 2). A nostro avviso, intervenire oggi comporterebbe rischi di bilancio e potenziali ripercussioni politiche, soprattutto dagli USA. L’ipotesi di reintroduzione dei tassi negativi o di interventi sui cambi sembra più un avvertimento che una possibilità concreta. Finché l’inflazione resta contenuta e i rischi di deflazione limitati, la BNS sembra disposta a tollerare un graduale rafforzamento del franco.