Gennaio è iniziato all’insegna di due forze: l’ottimismo alimentato da solidi dati economici in arrivo dagli Stati Uniti e un certo disagio dovuto a inflazione, mutamenti politici e turbolenze sui mercati globali.
ll mercato del lavoro americano si è rivelato un’area positiva. A dicembre gli occupati non agricoli sono infatti aumentati di 256.000 unità, ben al di sopra delle 155.000 previste, mentre il tasso di disoccupazione è sceso leggermente fino a quota 4,1%. Dopo due anni di raffreddamento il mercato del lavoro sembra aver imboccato la giusta traiettoria. I mercati, al contempo, si sono preparati all’impatto delle promesse di aumento della spesa e crescita economica fatte da Trump in campagna elettorale. Fattori che, insieme ai timori su crescita del deficit e inflazione, hanno spinto gli investitori a rivalutare l’aggressività con cui la Fed potrebbe tagliare i tassi nel 2025. A fare di più le spese di questo mutamento delle aspettative sono stati i mercati obbligazionari: i Treasury decennali sono schizzati oltre quota 4,7%, trascinando al rialzo i rendimenti a livello globale. In Cina, in controtendenza, i rendimenti a 10 anni hanno toccato i minimi storici sulla scia dei timori su debolezza della crescita e inflazione con cui è alle prese il Paese.
Nel 2025, secondo le nostre previsioni, l’economia continuerà a crescere, l’inflazione resterà sotto controllo e gran parte delle banche centrali porterà avanti i tagli dei tassi in maniera graduale. La Fed ha mantenuto i tassi invariati a gennaio e ha sottolineato di non avere fretta. Si prevede che la Fed ridurrà i tassi di interesse a quello che è considerato il territorio «neutrale» quest’anno, non appena assisteremo a ulteriori sorprese al ribasso sul fronte dell’inflazione. Ciò farebbe scendere nuovamente anche i rendimenti dei Treasury decennali verso il 4% fornendo sostegno ai mercati azionari. Dall’altra parte dell’Atlantico il quadro è meno roseo. L’Eurozona ha di fronte una strada in salita dato che l’attività economica rimane moderata e la fiducia di consumatori e imprese resta debole.
La crisi economica della Germania: dal «Bruttosozialprodukt» alla stagnazione
«Ja, ja, ja, jetzt wird wieder in die Hände gespuckt, wir steigern das Bruttosozial produkt…». All’inizio degli anni ’80 la canzone satirica «Bruttosozialprodukt» dei Geier Sturzflug travolse Germania, Austria e Svizzera, conquistando le vette delle classifiche con la sua critica ironica dell’etica del lavoro tedesca. La leggerezza di questa canzone sull’industriosità del Paese sembrava rispecchiare perfettamente lo spirito del governo di coalizione giallonera, favorevole agli affari, di quel periodo.
Nel terzo trimestre del 2024, l’economia tedesca ha registrato una crescita di appena lo 0,1%. Un tempo motore dell’economia del Paese, le esportazioni le esportazioni si sono contratte del 2,8% su base mensile in ottobre. La produzione industriale, nel frattempo, resta oltre 10 punti percentuali al di sotto dei livelli pre-pandemici a quasi cinque anni dall’inizio della pandemia. Secondo gli economisti, un cambiamento nel prossimo futuro è improbabile. Stando alle previsioni dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), nel 2025 la Germania «sarà il fanalino di coda dei Paesi membri dell’OCSE», espandendosi di un misero 0,7%. La Federazione dell’Industria Tedesca (Bundesverband der Deutschen Industrie, BDI) dipinge un quadro ancor più cupo, prevedendo un calo della produzione del 3% nel 2024 e «nessun miglioramento all’orizzonte» nel 2025. Ovvero, citando il presidente de BDI Siegfried Russwurm, «il modello economico tedesco è in grave pericolo, non prima o poi, ma qui e ora. Circa un quinto del valore creato dal settore industriale è a rischio».
Com’è potuto accadere questo clamoroso declino? Si è detto molto sulla pandemia di Covid-19, sulla guerra tra Russia e Ucraina e sulla crisi energetica come fattori che hanno contribuito alle difficoltà dell’economia tedesca. Ma uno sguardo più attento al grafico 1 rivela che alcune crepe nelle fondamenta industriali della Germani sono apparse ben prima delle recenti crisi. La produzione industriale tedesca, ad esempio, ha raggiunto il suo picco anni prima che arrivassero la pandemia o la guerra in Ucraina. Ciò indica che potrebbero essere in gioco sfide strutturali più profonde.
Una di queste sfide è la forte dipendenza della Germania dalle esportazioni. L’export di beni e servizi ammonta a oltre il 40% del Prodotto Interno Lordo (PIL) del Paese, in netto contrasto con Stati Uniti (11%) ed Eurozona (19%, tutti i dati aggiornati al 2024). Pur essendo stato uno dei pilastri del suo successo economico per decenni, il modello di crescita trainato dalle esportazioni della Germania fa sì che l’economia sia vulnerabile a shock esterni e fluttuazioni del commercio globale. Questa vulnerabilità è particolarmente evidente nei rapporti con la Cina, la seconda economia mondiale. Per decenni la Cina è stata un importante importatore di beni dalla Germania, con un incremento delle esportazioni tedesche verso il gigante asiatico da meno del 2% del totale nel 2000 a quasi il 10 nel 2020. Nel 2024, però, tale cifra è scesa a solo il 5%, poiché la Cina si è trasformata da cliente fedele a formidabile concorrente, specialmente in settori chiave (grafico 2).
Una crisi che dura da anni
E poi c’è il problema del fallimento della strategia energetica tedesca. Come molti Paesi europei, la Germania è un importatore netto di energia; in altre parole, non essendo in grado di soddisfare il proprio fabbisogno energetico internamente è costretta a fare affidamento su fornitori esteri. All’inizio del 2022 la Germania acquistava il 55% del proprio gas naturale dalla Russia. L’invasione russa dell’Ucraina, tuttavia, ha determinato una reazione a catena: interruzioni delle forniture, una drastica impennata dei prezzi dell’energia e una frenetica ricerca di fornitori alternativi.
La crisi energetica del 2022 ha riacceso il dibattito sulla sicurezza energetica e accelerato la transizione verso le energie rinnovabili. Per spezzare una lancia a favore della Germania, sono stati compiuti significativi progressi. Secondo stime del Fraunhofer Institute for Solar Energy Systems, nel 2023 in Germania la quota delle fonti rinnovabili nel mix elettrico, ovvero l’energia fornita dalle prese elettriche, ammontava all’incirca al 57%. Questo, tuttavia, non si traduce automaticamente in prezzi bassi e stabili. In assenza di vento o luce solare l’energia generata dagli impianti eolici e solari diminuisce, con un conseguente incremento del prezzo dell’elettricità. Proprio come avvenuto lo scorso dicembre, quando i prezzi dell’elettricità sul «mercato del giorno prima» hanno subito un’impennata arrivando a EUR 900 per megawatt/ora, per poi scendere rapidamente fino a quota EUR 100 poco dopo. In teoria, l’energia nucleare può fornire un «cuscinetto» contro queste fluttuazioni. A inizio 2023, però, la Germania ha spento le sue ultime tre centrali nucleari, decisione che ha destato polemiche sia nel Paese che all’estero. La Svezia ha criticato, in maniera particolarmente aperta, l’abbandono dell’energia nucleare da parte della Germania, accusandola di «ipocrisia»8. A dicembre del 2024, la ministra dell’energia svedese Ebba Busch ha accusato la Germania di bloccare i finanziamenti UE a favore di nuovi progetti per la costruzione di centrali di base per produrre energia da fonti non fossili. «Una cosa è non volere l’energia nucleare per sé stessi», ha affermato Busch, «un’altra è impedire ad altri Paesi di accedere ai fondi». Sebbene le interruzioni delle forniture energetiche da parte della Russia rappresentino di sicuro un punto di svolta, la crisi energetica tedesca ha avuto inizio prima dell’invasione russa dell’Ucraina (grafico 3).
Una competitività in calo
Un’altra sfida significativa è rappresentata dalla competitività della Germania. La competitività (o la sua mancanza) abbraccia diversi aspetti. Si prenda ad esempio le rigide norme sul mercato del lavoro vigenti nel Paese. A differenza degli Stati Uniti, per poter interrompere un rapporto di lavoro la legge tedesca richiede una motivazione valida, richiami formali e un rigoroso rispetto dei periodi di preavviso. Queste regole, unite a una forza lavoro altamente sindacalizzata, rendono relativamente difficile per le aziende licenziare i dipendenti.
La competitività è legata anche ai fattori demografici. Secondo dati della Banca Mondiale, nel 2022 in Germania il tasso di fertilità (il numero di figli per donna) era pari solo a 1,5, il livello più basso del Peer Group (Stati Uniti: 1,7, Francia: 1,89). Secondo il World Factbook (2023) della CIA, inoltre, la Germania è tra i primi 10 Paesi a livello mondiale per età mediana, pari a 46,7 anni. L’invecchiamento della popolazione ha profonde implicazioni economiche. Con la contrazione della forza lavoro è più probabile che si verifichino carenze di manodopera in determinati settori. Stando alle stime ufficiali, la Germania potrebbe dover fare i conti con un deficit di sette milioni di lavoratori qualificati entro il 2035. Questa contrazione del mercato del lavoro potrebbe spingere al rialzo i salari, con un conseguente inasprimento delle pressioni sui costi per le imprese. Al contempo, in una società sempre più anziana è necessaria una maggiore spesa pubblica in pensioni e sanità. Questo aumento dei costi potrebbe mettere sotto stress le finanze pubbliche, determinando potenzialmente un incremento delle tasse. Tali sfide demografiche potrebbero essere risolte, in parte, attraverso un aumento dell’immigrazione (che rimane, però, un tema politicamente sensibile).
Per non parlare dell’elevata pressione fiscale sulle imprese tedesche. Secondo il Tax Database dell’OCSE, nel 2024 l’aliquota legale dell’imposta sulle società in Germania ammontava a circa il 30%, la più alta del Peer Group (vs Francia, Paesi Bassi e Stati Uniti: circa 25%; Svezia, Finlandia e Svizzera: circa 20%).
Un’altra sfida strutturale riguarda la carenza di investimenti. La formazione netta di capitale fisso del Paese, espressa come percentuale del PIL, risulta inferiore a quella di altri Paesi come Stati Uniti ed Eurozona. La riluttanza tedesca a investire diviene evidente anche quando si guarda all’invecchiamento del suo stock di beni strumentali (età media in Germania: 7,3 anni; Eurozona: 6,7 anni; Stati Uniti: 6,1 anni). A un certo punto quest’invecchiamento renderà necessario reinvestire oppure la qualità ne risentirà.
Margini di ottimismo
Nonostante queste sfide, il quadro non è totalmente negativo. Grazie ad anni di disciplina nella gestione dei conti pubblici, il debito pubblico lordo tedesco, espresso come percentuale del PIL, è significativamente inferiore a quello del Peer Group. Questo fornisce al Paese un certo spazio di manovra dal punto di vista finanziario (grafico 4). È del tutto plausibile che un giorno la Germania superi la propria avversione al debito e inizi a investire di più. Per-fino l’ex cancelliera Angela Merkel, detta un tempo il «flagello» d’Europa in fatto di conti pubblici, ha espresso di recente il proprio sostegno all’ipotesi di allentare il «freno al debito» del Paese per stimolare gli investimenti.
Non va dimenticato, inoltre, che l’economia tedesca non è in grado di produrre solamente automobili (grafico 5). È vero, il settore automobilistico rappresenta una quota considerevole delle esportazioni tedesche. Nel 2023 i macchinari e altri mezzi di trasporto ammontavano al 26% delle esportazioni del Paese, mentre i veicoli stradali il 12%. La Germania, però, svolge un ruolo significativo anche nel settore chimico (14%) e in quello dei servizi (18%).
A fornire parzialmente sollievo potrebbe essere anche la riduzione dei prezzi del gas. Nei prossimi anni dovrebbe, infatti, entrare in funzione un gran numero di nuovi progetti legati al gas naturale liquefatto (GNL). Secondo proiezioni contenute nel World Energy Outlook 2024 dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, l’offerta globale è destinata a superare la domanda, creando un avanzo che potrebbe durare per buona parte degli anni 2030 . Ciò potrebbe favorire un gran numero di industrie tedesche ad alta intensità energetica.
Poi c’è la forza innovativa della Germania. Pari a oltre il 3% del PIL, la spesa tedesca in ricerca e sviluppo è di poco inferiore a quella degli Stati Uniti (3,5%), superando anche significativamente la media dell’Eurozona, pari al 2,3% (Banca Mondiale, 2021). Ciò potrebbe tradursi in nuovi e innovativi prodotti «made in Germany» (nota: l’industria automobilistica tedesca, in particolare, investe molto in R&S).
Infine, c’è un possibile mutamento politico. Dopo il crollo della coalizione di governo alla fine dello scorso anno, sono previste elezioni anticipate per febbraio 2025. Mentre viene redatto quest’articolo, l’alleanza tra i partiti di centrodestra di CDU e CSU è in testa ai sondaggi e appare destinata a formare il prossimo governo. I due partiti hanno delineato un ambizioso programma politico che mira a far fronte alle principali criticità economiche ed energetiche del Paese. Tra le riforme fiscali proposte vi sono una graduale riduzione dell’aliquota dell’imposta sul reddito e sulle società (quest’ultima fino ad un massimo del 25%) e l’abolizione del cosiddetto contributo di solidarietà (Solidaritätszuschlag). A questo si aggiunge la proposta di un conto d’investimento sussidiato dallo Stato per ogni bambino. Per quanto riguarda le politiche energetiche, l’alleanza intende ridurre le tasse sull’elettricità e gli oneri di rete, espandere le reti energetiche e la capacità di accumulo, accelerare lo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili e abolire la legge sui sistemi di riscaldamento approvata dalla coalizione stessa con l’obiettivo di ridurre le emissioni. La CDU / CSU sostiene, inoltre, la necessità di non abbandonare l’energia nucleare, riconsiderando ad esempio la possibilità di riaprire le centrali precedentemente spente.
Le cose da fare: obiettivo «make Germany great again»
Per comprendere se la Germania, un giorno, riacquisterà la forza di un tempo, è stato elaborato un elenco delle criticità del Paese e di ciò che servirebbe per superarle. Al momento, sono soddisfatti solo pochi criteri (es. ripresa della crescita dell’export globale, nessuna escalation della guerra commerciale con gli Stati Uniti, riduzione dei tassi sui mutui). Ciononostante, con gli strumenti giusti e politiche adeguate, ci sono i margini affinché il destino della Germania cambi e il Paese torni ad essere «di nuovo grande».
Pausa in corso
All’indomani della riunione di settembre del FOMC gran parte degli investitori dava ampiamente per scontato che il tasso sui Fed Fund fosse diretto verso il 3%. Dopo la vittoria repubblicana alle elezioni statunitensi, però, il mercato ha rivisto nettamente al rialzo le proprie aspettative con la previsione diffusa di tassi più vicini al 4%. Oggi gli investitori si preparano alla possibilità che i tassi restino agli attuali livelli senza altri tagli all’orizzonte.
Malgrado un taglio da un quarto di punto a dicembre in linea con le aspettative del mercato, la Fed ha segnalato un orientamento restrittivo per il 2025. Dal mix tra meno riduzioni dei tassi attese e revisioni al rialzo delle previsioni sull’inflazione è emerso un quadro complesso. Le questioni sul tavolo si sono accumulate quando, alla conferenza stampa, il presidente della Fed Powell ha riconosciuto che alcuni membri del FOMC avevano tenuto conto delle politiche della nuova amministrazione nelle proprie proiezioni, contraddicendo la sua precedente affermazione secondo cui il comitato non fa congetture né supposizioni. Benché i funzionari possano tenere conto dei possibili effetti delle politiche di bilancio, il loro mandato prevede che la politica monetaria sia guidata da dati oggettivi. Senza un vero e proprio pivot da tagli a rialzi dei tassi è improbabile che il rendimento dei Treasury decennali infranga in maniera decisa la soglia del 5%. L’andamento dei rendimenti dei Treasury segue strettamente le previsioni sui tassi di riferimento scontate dal mercato (grafico 1), e i mercati dovrebbero scontare nuovi aumenti dei tassi per spingere saldamente al rialzo i rendimenti. Eppure, la Fed considera il suo attuale orientamento già restrittivo, mentre l’incremento dei rendimenti sta frenando lo slancio nell’immobiliare residenziale e nell’azionario, motivo per cui si ritiene che una pausa prolungata sia molto più probabile di un nuovo round di inasprimento.
IG: margini risicati per extra rendimenti
Un ulteriore allentamento da parte della Fed potrebbe fornire un certo sostegno alle obbligazioni corporate investment grade (IG). Per ora gran parte delle possibili notizie positive appare incorporata nelle valutazioni, distorcendo fortemente gli extra rendimenti attesi. Sebbene gli attuali rendimenti offrano prospettive apprezzabili in termini di performance complessive, i margini per un’ulteriore compressione degli spread sono scarsi. Negli ultimi 15 anni sono state ben poche le giornate di contrattazione in cui i differenziali dell’IG sono stati inferiori ai livelli attuali (grafico 2). Ciò indica che il potenziale per un ulteriore restringimento degli spread è limitato e potrebbe segnalare una maggiore vulnerabilità a sviluppi di mercato negativi o shock economici dato che i differenziali hanno poco margine per assorbire rischi aggiuntivi.
Cosa ci aspetta dopo le ultime turbolenze sul mercato?
Il dicembre 2024 è stato segnato da una complessa interazione tra politiche monetarie, tensioni geopolitiche, crisi politiche e stimoli economici che ha portato a risultati eterogenei tra i vari mercati azionari globali dando un’idea di cosa ci avrebbe riservato il mese successivo. E ora cosa accadrà?
Mentre ci stavamo preparando per festeggiare l’inizio dell’anno nuovo con un bicchiere di champagne, il taglio dei tassi «restrittivo» della Fed alla riunione di dicembre ha smorzato l’atmosfera festiva. La Fed ha segnalato che i tassi rimarranno restrittivi più a lungo di quanto si attendessero i mercati, riflettendo la preoccupazione continua per l’inflazione e facendo aumentare i rendimenti dei titoli di stato.
Di conseguenza l’ottimismo degli investitori si è raffreddato dopo un 2024 record caratterizzato da valutazioni eccessive e con l’ulteriore incertezza creata dall’imminente stagione degli utili di fine anno. Fattori che hanno determinato un aumento della volatilità sui mercati azionari a inizio gennaio e hanno innescato una rotazione dal mercato statunitense verso stili di investimento più difensivi e settori con valutazioni più basse, come l’Eurozona o la Svizzera. Il mercato azionario statunitense ha registrato un notevole rimbalzo verso la fine del mese, alimentato dall’ottimismo legato all’insediamento di Trump e agli annunci di importanti investimenti nell’IA. Tuttavia, lo slancio è stato interrotto dalla notizia di una startup cinese che sta sviluppando un modello di IA altamente competitivo e a basso costo, mandando i mercati in una temporanea frenesia.
L’Investment Committee di Vontobel mantiene un posizionamento positivo sull’azionario. Si conferma il sovrappeso, detenuto quasi ininterrottamente da fine settembre 2022, in virtù di una fase rialzista secolare che si ritiene possa protrarsi nel 2025 nonostante la volatilità a breve termine (grafico 1). Particolarmente rialziste le azioni americane, destinate a beneficiare di diversi fattori, tra cui la prosecuzione delle politiche «America first» di Trump e la loro ottima esposizione settoriale a tecnologie nuove e rivoluzionarie.
Nonostante la battuta d’arresto di fine gennaio e la probabilità di una continua volatilità a breve termine – in particolare per i fornitori di semiconduttori e di data center IA– si presume che i prossimi 12 mesi saranno guidati da una forte crescita degli utili e da sorprese positive inaspettate. Inoltre, non ci si trova di fronte a uno scenario simile alla bolla delle dot-com del 2000, quando le aziende tecnologiche erano caratterizzate da una redditività debole, alti livelli di indebitamento, modelli di business fragili e valutazioni gonfiate. Oggi i risultati economici sono molto più affidabili (grafico 2).
L’oro nero continua a scorrere
Il mese di gennaio ci ha ricordato quanto possano cambiare repentinamente le sorti del mondo delle materie prime. Per vari mesi il greggio Brent aveva fatto fatica a restare sopra gli USD 70 al barile; verso metà gennaio, però, i prezzi avevano superato quota USD 80.
Un ruolo centrale nel trainare questo rally l’ha svolto la geopolitica. Nelle sue ultime due settimane l’amministrazione Biden ha imposto sanzioni inaspettatamente severe contro la Russia pendendo di mira due importanti compagnie petrolifere, oltre 180 imbarcazioni, compagnie assicurative e i trader che acquisteranno petrolio a un prezzo superiore al tetto di USD 60 al barile fissato dal G7.
A contribuire all’aumento dei prezzi sono stati anche l’imminente insediamento di Trump e i timori di politiche più aggressive da parte dell’Iran. Nel corso della prima amministrazione Trump la produzione di greggio iraniana è scesa da 3,8 a 2 milioni di barili al giorno (grafico 1), innescando un brusco rialzo dei prezzi. Se Trump manterrà la promessa di fare «massima pressione» le quotazioni potrebbero salire ulteriormente, tendenza spesso osservata quando entra in gioco una superpotenza energetica.
Ha svolto un ruolo anche la proposta di Trump di un dazio al 25% su tutte le importazioni dal Canada, comprese quelle di petrolio, che, unita a un inverno più rigido del previsto negli Stati Uniti che ha fatto aumentare la domanda di gasolio per riscaldamento, ha acuito i timori sull’offerta. La notizia che le scorte di petrolio a Cushing (Oklahoma) sono scese ai minimi dell’ultimo decennio (grafico 2) ha amplificato ulteriormente le preoccupazioni. C’è ancora la speranza che le probabilità di un vero e proprio shock petrolifero restino limitate. Oggi la situazione è significativamente diversa da quella del 2018 – 2019. All’epoca diversi acquirenti dipendevano dal petrolio iraniano, ma oggi oltre il 90% del greggio esportato dall’Iran è diretto verso la Cina, Paese che non riconosce le sanzioni americane. Il ministro del petrolio iraniano ha già annunciato che «sono state adottate le misure necessarie».
Cruciale è anche il ruolo del Canada. Il Paese è infatti importante per le raffinerie americane, specialmente quelle del Midwest, dal momento che queste si sono specializzate nel greggio «pesante» canadese, non in quello «leggero» americano.
E poi c’è la prospettiva di una continua contrazione della domanda. I principali osservatori, come l’OPEC, hanno ripetutamente tagliato le proprie previsioni di domanda menzionando spesso la debolezza economica della Cina, il più grande importatore di petrolio al mondo. Forse il più importante argomento contro l’ipotesi di uno shock petrolifero è Trump stesso, che si è espresso esplicitamente contro prezzi del petrolio elevati.
Il re dollaro regna incontrastato
Lo scorso anno il dollaro statunitense ha subito un’impennata del 7,2%, con gran parte dei guadagni concentrati nell’ultimo trimestre per le speranze sull’effetto positivo sull’economia di un «Trump 2.0», battendo le altre valute globali. Anche se il rally del biglietto verde può proseguire le incertezze su tempistiche delle politiche americane e slancio economico del Paese potrebbero frenarne l’ascesa.
Due parole: «re dollaro» (grafico 1). Gran parte dei guadagni è arrivata a fine 2024 dato che i mercati si sono adeguati a possibili mutamenti politici da parte di Trump. Il rally ha travolto le valute sia dei mercati emergenti che di quelli sviluppati, con il real brasiliano che ha subito un crollo del 21,4% in un quadro di instabilità economica interna e avversione al rischio a livello globale.
La traiettoria del dollaro statunitense dipende dai dati economici americani e dal rafforzamento, da parte di Trump, di un’economia già robusta. I guadagni potrebbero proseguire, ma se la crescita subisse una battuta d’arresto l’economia di fine ciclo americana è a rischio inversione.
Euro alle corde
Lo scorso anno, l’euro è crollato, cedendo il 6,2% rispetto al dollaro con un’accelerazione delle perdite nell’ultimo trimestre. La narrativa positiva sugli Stati Uniti ha attratto gli investitori verso il biglietto verde mentre sull’euro hanno pesato incertezza politica e una crescita fiacca in tutta l’Eurozona. Benché il dollaro continui a dominare, la durata del rally inizia ad apparire eccessiva, dando adito a congetture su un rimbalzo dell’euro. Una risoluzione del conflitto in Ucraina o politiche di bilancio più flessibili in Germania potrebbero fornire all’economia lo slancio di cui ha tanto bisogno. Il fattore più decisivo, tuttavia, sono gli Stati Uniti; eventuali segnali di rallentamento economico potrebbero indebolire la presa del dollaro e offrire all’euro la sua migliore opportunità di ripresa.
Il franco svizzero sotto i riflettori
Il franco svizzero resta favorito dalle performance economiche del Paese, robuste e superiori a quelle degli omologhi dell’Eurozona. Nonostante un taglio dei tassi da parte della Banca Nazionale Svizzera (BNS) all’orizzonte, i «tori» del franco continuano ad agire indisturbati. Tuttavia, se la propensione al rischio globale dovesse migliorare a causa dell’allentamento delle tensioni geopolitiche o della ripresa economica, il franco tenderebbe a indebolirsi.
Gli ultimi dati sull’inflazione in Svizzera hanno consolidato le aspettative di un taglio dei tassi da 25 punti base (pb) da parte della BNS a marzo. La domanda chiave è: la BNS riproporrà l’audace riduzione dei tassi da 50 pb di dicembre o opterà per un più cauto taglio da 25 pb? Il sentiment di mercato indica che la BNS potrebbe in ultima analisi rivedere al ribasso il proprio tasso di riferimento fino a un livello minimo pari a 0 (grafico 2).
Autori
Stefan Eppenberger, Head Multi Asset Strategy
Michaela Huber, Senior Cross-Asset Strategist
Christopher Koslowski, Senior Fixed Income & FX Strategist
Mario Montagnani, Senior Investment Strategist