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Investors’ Outlook: un terreno scivoloso

Frank Häusler, Stefan Eppenberger, Christopher Koslowski, Mario Montagnani & Michaela Huber
16 mag 2024 | 18 Minuti di lettura

Il mese di aprile ha dimostrato ancora una volta quanto immediato e grave possa essere l'impatto delle tensioni geopolitiche sui portafogli di investimento. Gli investitori hanno preso coscienza dei rischi e del fatto che – nonostante l’attenzione sia sempre puntata su mercato del lavoro, tassi d’interesse e inflazione – il tanto temuto Cigno Nero potrebbe irrompere dall’esterno. Il primo attacco dell’Iran a Israele ha segnato un’escalation in Medio Oriente e gli investitori temevano la prospettiva di un allargamento del conflitto, con il possibile coinvolgimento degli USA. Nel frattempo, la guerra in Ucraina prosegue con una potenziale offensiva della Russia in estate e gli investitori temono le crescenti tensioni tra Cina e Taiwan. Siamo, inoltre, in un anno storico a livello elettorale, che si preannuncia divisivo negli USA.

Rovesci d’aprile

I «rovesci» più allarmanti di aprile sono state le tensioni geopolitiche in Medio Oriente, e gli investitori stanno monitorando la possibilità di un’escalation e le potenziali conseguenze sul mercato. Anche le banche centrali e le tempistiche dei tagli dei tassi rimangono considerazioni primarie.

In un contesto di spesa al consumo solida e mercato del lavoro resiliente, i dati economici dagli USA hanno continuato a sorprendere al rialzo. Ne è risultata un’inflazione più vischiosa del previsto, che potrebbe rendere più dure le ultime fasi della battaglia della Federal Reserve USA (Fed) per contrastarla. Inoltre, questa situazione potrebbe posticipare i primi tagli dei tassi d’interesse, come ha indicato il Presidente della Fed Jerome Powell il mese scorso, affermando che i policymaker possono mantenere stabili i tassi per «tutto il tempo necessario» se persistono le pressioni sui prezzi.

Ciononostante, gli investitori stanno aspettando giugno con trepidazione. L’economia dell’Eurozona mostra segni di miglioramento, secondo gli indicatori anticipatori: il settore manifatturiero e quello dei servizi sembrano in crescita, l’inflazione ha registrato un forte rallentamento e la produzione industriale nella principale economia della regione, la Germania, è cresciuta più del previsto. La Banca Centrale Europea (BCE) si sta preparando a un primo taglio dei tassi. La Presidente Christine Lagarde ha affermato in un’intervista alla CNBC a metà aprile che la banca centrale «sta arrivando al punto» in cui dovrà moderare la sua politica monetaria restrittiva, a patto che non ci siano «grandi shock.» Altri membri della BCE le hanno ribadito questo concetto.

Elezioni presidenziali negli Stati Uniti - Cosa potrebbe significare un secondo mandato di Trump per gli investitori?

Le elezioni presidenziali negli USA non sono imminenti; la maggiore economia mondiale andrà alle urne il 5 novembre 2024. Ma se diamo un’occhiata alle principali fonti di informazione finanziaria e ai canali social, è evidente che la campagna elettorale è già in pieno svolgimento.

Recentemente, il presidente in carica Joe Biden e Donald Trump si sono scambiati colpi verbali su chi dei due fosse più adatto alla presidenza. Trump, 77 anni, ha definito Biden «gravemente incompetente» mentre Biden, 81 anni, intervistato in merito alla sua età avanzata ha replicato: «Un candidato è troppo vecchio e mentalmente inadatto ad essere Presidente … l’altro sono io.» Non ha molto senso cercare di prevedere l’esito delle elezioni utilizzando il calcolo probabilistico. Tuttavia, immaginare degli scenari possibili potrebbe essere utile per gli investitori. Questo articolo si focalizza principalmente su Trump piuttosto che su Biden, non in ragione di una preferenza politica né della convinzione che Trump abbia maggiori chance di vittoria, quanto perché un secondo mandato di Trump potrebbe avere implicazioni più ampie per il mercato rispetto alla rielezione di Biden, che si tradurrebbe nella mera conservazione dello status quo.

 

Perché si dovrebbe prendere in seria considerazione un secondo mandato di Trump?

Il primo mandato di Trump (2017 – 2021) è stato ricco di eventi: oltre alla guerra commerciale con la Cina, al ritiro dall’Accordo sul nucleare iraniano e dall’Accordo sul clima di Parigi e alla minaccia di uscita da importanti alleanze come la NATO (North Atlantic Treaty Organization) o la WTO (World Trade Organization), la sua presidenza è stata segnata da numerosi avvicendamenti del personale, dal divieto d’accesso ad alcune popolazioni, dalla costruzione del muro al confine con il Messico, da impeachment, furto di documenti riservati, accuse di frode elettorale e un assalto armato al Campidoglio.

Non mancano, dunque i punti a sfavore di un secondo mandato. Tuttavia, i sondaggi indicano attualmente una gara serrata. E la situazione non appare troppo negativa neanche nei cosiddetti «swing states». Inoltre, i risultati ottenuti da Trump in passato sono stati migliori rispetto ai sondaggi.

 

Quali sono le argomentazioni a favore di Trump?

La persistente popolarità di Trump è, probabilmente, strettamente collegata agli sviluppi sociali e al suo status di «enfant terrible» dell’establishment. Ad esempio, la classe media statunitense è sempre più frustrata per essere stata lasciata indietro quando la globalizzazione ha fatto salire di status le classi a basso reddito e ha favorito negli ultimi decenni Paesi in via di sviluppo come la Cina. Negli anni Novanta, la classe media possedeva circa il 37 % del patrimonio delle famiglie statunitensi. Sul finire del Millennio, questa percentuale era scesa al 30 %, e oggi è di poco inferiore al 26 %, secondo i dati della Fed.

Nel frattempo, la fiducia nelle istituzioni statali è in picchiata ormai da anni. Secondo un sondaggio Gallup, negli anni Ottanta la fiducia nella Corte Suprema era di poco inferiore al 60 %. Nel 2023 era scesa al 27 %. Sono peggiori solamente i dati sulla fiducia nella stampa (2023: 18 %) o nel Congresso (2023: 8 %). Dopo la fine del mandato di Trump, la situazione è ulteriormente peggiorata. Uno dei motivi è probabilmente lo shock dell’inflazione, che all’inizio del 2021 ha spinto la crescita dei salari reali (rettificati per l’inflazione) di molti americani in territorio negativo.

Anche l’impopolarità di Biden gioca a favore di Trump. L’indice di gradimento di un Presidente è di norma un buon indicatore della possibilità che venga rieletto. In passato, l’opinione pubblica sul Presidente dipendeva principalmente da valutazioni legate all’economia ma recente mente questo rapporto sembra essersi invertito: l’economia USA è solida, il tasso di disoccupazione rimane ai minimi storici e anche l’inflazione (le cui basi sono state gettate prima dell’insediamento di Biden) è scesa netta mente. Eppure, l’indice di gradimento di Biden è crollato: se all’inizio del 2021 si attestava sul 53 %, secondo il sito web FiveThirtyEight gestito da ABC News, oggi è intorno al 40 %. E questo lo rende ancor meno popolare di quanto fosse Trump durante il suo primo mandato.

Molti americani non hanno fiducia nel fatto che Biden affronterà problematiche che ritengono importanti, secondo un sondaggio Ipsos. Questo riguarda, in parti colare, temi sociali come la criminalità o l’immigrazione. L’immigrazione è aumentata significativamente dal 2022, in parte a causa dell’allentamento delle restrizioni post- pandemia, intensificandosi sempre più. Solo a dicembre, gli agenti federali hanno fermato ogni giorno 10’000 persone che tentavano di oltrepassare il confine meridionale, secondo Bloomberg News. Questi dati saranno probabilmente terreno fertile per qualche slogan populista.

Inoltre, uno dei gruppi di elettori più fedeli ai Democratici sembra aver cambiato opinione: secondo un sondaggio New York Times / Siena di aprile il supporto a Trump tra gli elettori di colore è salito al 16 %. Anche gli elettori ispanici si stanno orientando verso Trump. Probabilmente questi gruppi hanno perso fiducia in Biden e sono stati particolarmente colpiti dai redditi reali negativi.

 

Quali sono le argomentazioni a favore di Biden?

Le statistiche sono dalla parte di Biden. Storicamente, il Presidente degli USA in carica viene rieletto nel 67 % dei casi. Se il Presidente in carica riesce a evitare una recessione, tale probabilità sale all’80 %. Al contrario, se l’economia entra in recessione, il Presidente viene penalizzato e la probabilità di rielezione scende al 44%. In considerazione della solidità del mercato del lavoro, sia negli USA in generale che negli swing states, è improbabile l’arrivo di una recessione prima delle elezioni.

Chi vincerà la maggioranza al Congresso?

Un’altra domanda cruciale è chi vincerà il Congresso. Gli scenari più probabili sono due: un’on data rossa (vittoria schiacciante per i Repubblicani) o uno stallo. L’ondata blue (vittoria schiacciante per i Democratici) è meno probabile. Perché? Il Congresso è composto dal Senato e dalla Camera dei Rappresentanti. Al Senato, quest’anno sono in ballo 28 seggi dei Democratici; 23 non saranno oggetto delle elezioni e sono, dunque, considerati «sicuri». Situa zione diversa per i Repubblicani: solo 11 seggi sono in ballo, 38 sono considerati «sicuri».

In base ai sondaggi del sito politico 270toWin12, i Repubblicani sarebbero oggi in testa. È, dunque, possibile che guadagneranno dei seggi e rafforzeranno la loro influenza al Senato. Chi controllerà la Camera dei Rappresentanti dipenderà probabilmente dall’esito delle elezioni. In caso di vittoria elettorale, Trump troverebbe meno ostacoli rispetto a Biden. Mentre Biden (probabilmente) affronterebbe un certo ostruzionismo in caso di vittoria, Trump potrebbe (probabilmente) lavorare con la maggioranza al Congresso.

 

Ciò che è improbabile che cambi in ogni caso indipendentemente dal presidente eletto

Indipendentemente da chi entrerà alla Casa Bianca, i seguenti punti rimarranno invariati.


1. Protezionismo

Chiunque aveva sperato in un ridimensionamento della politica «America First» e in una maggiore apertura commerciale da Joe Biden, negli ultimi anni è rimasto deluso. Biden sembra perseguire una politica di «educato protezionismo»: posta meno tweet aggressivi rispetto al suo predecessore, ma mantiene comunque prioritari gli interessi dell’America. Molti dei dazi a difesa della sicurezza nazionale o delle restri zioni volontarie negoziate da Trump con altri Paesi sono rimaste intatte con l’amministrazione Biden. Biden sembra condividere la view di Trump secondo cui tutelare l’industria siderurgica USA sarebbe una que stione di sicurezza nazionale. Non mancano altri esempi di misure protezionistiche: basti pensare al Chips and Science Act promosso da Biden, che offre miliardi di investimenti per la produzione, ricerca e sviluppo di semiconduttori, con l’obiettivo di creare più posti di lavoro nazionali nel settore manifatturiero.

2. Politica anti-Cina

Anche l’approccio nei confronti della seconda mag giore economia mondiale rimarrà probabilmente invariato. Sia i Repubblicani che i Democratici hanno imparato con il tempo che una politica anti-Cina incontra il favore degli elettori. Mentre Trump è apertamente ostile alla Cina (come dimostrano i vari dazi punitivi imposti o la sua convin zione che il Covid-19 sia un «virus cinese»), l’approccio di Biden è più sottile ma non meno determinato. Que sto appare chiaro, ad esempio, se si guardano le società cinesi che negli ultimi anni sono state inserite nella «lista delle entità» degli USA.

3. Riarmo

Trump ha ripetutamente richiesto un incremento della spesa militare15, pretendendolo altresì dagli altri Stati membri della NATO. A febbraio ha, inoltre, annunciato che in caso di emergenza non si schiere rebbe a fianco degli alleati NATO. Anche Biden è favorevole a potenziare la spesa: a marzo 2024 ha, infatti, presentato una proposta di budget per l’esercizio 2025 che comprende 850 miliardi di dollari di finanziamenti discrezionali per il Dipartimento della Difesa (+4,1 % rispetto all’esercizio 2023).

4. Debito pubblico

A una prima occhiata, il debito pubblico in crescita non è una novità. Il debito pubblico, misurato come percentuale del prodotto interno lordo (PIL) si muove da anni in una sola direzione: al rialzo. Negli anni Ottanta il debito nazionale si attestava intorno al 30 %, oggi supera il 120 %. Quello che potrebbe presto divenire un problema, tuttavia, è l’aumento del costo del servizio del debito (a causa dei tassi d’interesse più elevati). I tassi sono, infatti, ai massimi degli ultimi 40 anni.

 

 

Le promesse della campagna Trump

Riassumere tutte le promesse della campagna elettorale di Trump è alquanto ambizioso. Di seguito le cinque aree più importanti: politica fiscale, politica monetaria, politica commerciale, politica sull’immigrazione e politica estera.

1. Politica fiscale

Il programma di politica fiscale di Trump è principalmente incentrato sulla riduzione delle imposte. Nel suo primo mandato aveva già tentato di ridurre l’imposta sulle società dal 35 % al 15 %, fissandola infine al 21 %. Trump e i suoi consulenti hanno discusso un ulteriore taglio dell’aliquota d’imposta sulle società per portarla al 15 % secondo un articolo pubblicato dal Washington Post lo scorso settembre. Se Trump verrà eletto, anche le persone fisiche potranno sperare in una riduzione delle imposte. Poiché in passato la riduzione delle imposte ha indebolito la disciplina di bilancio negli USA, possiamo ipotizzare che il deficit di bilancio, già elevato, continuerà a crescere.

Trump intende risparmiare altrove e, tra le altre cose, eli minare i finanziamenti statali per le emittenti pubbliche. Gli aiuti esteri, i sussidi per il clima e gli investimenti nelle tecnologie sostenibili saranno a loro volta ridimensionati (Trump, ad esempio, ritiene che l’espansione del mercato delle auto elettriche getti le basi per possibili licenziamenti in massa nel settore automobilistico USA).

2. Politica monetaria

Trump ha innanzitutto preso di mira il presidente della Fed Jerome Powell. Trump e Powell condividono un passato turbolento: Trump aveva conferito a Powell (anche lui Repubblicano) l’incarico di Presidente della Fed nel 2017, lodandolo all’epoca come «saggio» ed esperto. Ma dopo aver alzato i tassi di interesse nel 2018, Powell ha perso il favore di Trump, che ha descritto la Fed e il suo Presidente come «incapaci» e ne ha richiesto le dimissioni. Nel 2019 Trump ha addirittura pubblicato un tweet chiedendosi se il «peggior nemico» degli USA fosse Powell o il Presidente cinese Xi Jinping. Nel 2024, Trump ha lasciato intendere che Powell potrebbe ridurre i tassi di interesse per sostenere i Democratici e garantire un secondo mandato a Biden.

Sbarazzarsi di Powell non sarà così semplice. Da un punto di vista legale, il Presidente può rimuovere un membro del Comitato della Fed (Powell incluso) solamente per «giusta causa». E l’insoddisfazione in merito alle politiche monetarie della Fed difficilmente sarà considerata una motivazione ragionevole. Tuttavia, Trump ha già annunciato che se verrà rieletto Presidente non affiderà un secondo mandato a Powell – la cui carica quadriennale scade nel 2026 – ma cercherà piuttosto di affidare l’incarico a un Presidente a lui più congeniale. Ad ogni modo, il Congresso sarà chiamato a dare la sua approvazione.

3. Politica commerciale

Trump rimane un sostenitore della politica «America First». Nel caso di un secondo mandato, possiamo aspettarci maggiori incertezze sul fronte della politica commerciale.

Trump ha, infatti, già annunciato che imporrà dazi all’importazione nella misura del 60 % sui beni provenienti dalla Cina e del 10 % sui beni provenienti da altri Paesi, se vincerà le elezioni. I dazi si attestano ora su una media del 3 %, o del 19 % nel caso della Cina, secondo il South China Morning Post. Se Trump portasse avanti quanto annunciato, l’Unione Europea (in quanto secondo maggiore partner commerciale degli USA) ne sarebbe particolarmente penalizzata, insieme alla Cina.

Sono in fase di discussione anche potenziali restrizioni alla proprietà cinese delle infrastrutture USA (es. nei settori dell’energia, della tecnologia, delle telecomunicazioni e delle risorse naturali). Trump sta, inoltre, considerando di imporre un divieto agli investimenti delle società statunitensi in Cina e di rivalutare il ruolo degli USA all’interno di importanti organizzazioni come la WTO.

4. Politica sull’immigrazione

I piani di Trump in materia di immigrazione sono altrettanto risoluti. In occasione di un recente fundraiser, Trump ha lamentato che nessun cittadino di Paesi «desiderabili» (la definizione di Trump per Danimarca, Svizzera e Norvegia) si trasferisce negli USA. Piuttosto, ha affermato, gli USA devono contrastare l’immigrazione di cittadini di altri Paesi. Anche l’immigrazione legale e il diritto alla cittadinanza per i bambini nati negli USA saranno messi in discussione. Le conseguenze sul mercato del lavoro potrebbero essere negative. L’immigrazione sostenuta che ha caratterizzato l’amministrazione Biden ha allentato la tensione sul mercato del lavoro, in crisi da tempo, con una domanda troppo elevata di manodopera e un’offerta troppo limitata. Il calo dell’immigrazione aggraverebbe il problema della carenza di manodopera, andando ad alimentare ulteriormente la pressione sui salari (e dunque l’inflazione).

5. Politica estera

A parte la politica sulla Cina, anche i rapporti con la Russia potrebbero finire sotto i riflettori. Trump sembra essere in buoni rapporti con il Presidente russo Vladimir Putin. Sebbene la dichiarazione di Trump di voler risolvere la guerra in Ucraina entro 24 ore24 possa essere un po’ ambiziosa, un modo in cui potrebbe influenzare la guerra sarebbe di tagliare gli aiuti finanziari all’Ucraina, come sembrerebbe aver detto al Primo Ministro ungherese Viktor Orban durante una riunione a marzo. Dovrebbe, tuttavia, convincere un Congresso ostile nei confronti della Russia.

La politica di Trump sull’Iran potrebbe avere un maggiore impatto sul prezzo del petrolio. Per Trump, le sanzioni sembrano l’unico modo per evitare che l’Iran possa incrementare le scorte di uranio arricchito (e dunque creare una bomba nucleare) in futuro. L’Iran è uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo con una produzione di 4,4 milioni di barili al giorno. Dopo il ritiro a sorpresa di Trump dall’accordo sul nucleare Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) a maggio 2018, il prezzo del petrolio è salito del 60 % in un breve lasso di tempo. Secondo le stime, da 2 a 4 milioni di barili di petrolio sono scomparsi (almeno temporaneamente) dal mercato mondiale. Per quanto riguarda il resto del Medio Oriente, Trump ha dato prova della sua abilità diplomatica. Gli Abraham Accords (2020), negoziati sotto la sua amministrazione, hanno normalizzato i rapporti diplomatici tra Israele e alcuni stati arabi. I firmatari – Emirati Arabi Uniti (EAU), Bahrain e Israele – hanno ribadito il loro desiderio di rafforzare la pace in Medio Oriente. Gli Emirati e Israele hanno altresì siglato un accordo di pace. Trump man tiene, inoltre, buoni rapporti con l’Arabia Saudita e il Qatar, importante esportatore di gas.

 

 

Le possibili conseguenze di un’amministrazione Trump 2.0 sull’economia

Non è chiaro se Trump possa vincere la maggioranza al Congresso e non è certo che i Repubblicani saranno d’accordo con tutte le sue proposte. E questo influirebbe sulla realizzazione (e le modalità di implementazione) di tutte le sue promesse elettorali. Inoltre, la situazione oggi è piuttosto diversa: molte delle promesse di Trump si scontrerebbero con un mercato del lavoro molto più con tratto. In altre parole, il rischio al rialzo per l’inflazione è più elevato rispetto al primo mandato di Trump. Quanto delineato di seguito potrebbe essere uno scenario plausibile:

1. Crescita

Un secondo mandato di Trump potrebbe essere in generale positivo per la crescita dell’economia. I tagli fiscali pianificati da Trump dovrebbero tradursi in un aumento del deficit di bilancio, che comporterebbe uno stimolo fiscale positivo. I piani di deregolamentazione di Trump potrebbero, inoltre, incrementare la produttività. E se il Congresso starà dalla parte di Trump, questo dovrebbe supportare l’economia statunitense. Nel lungo termine, tuttavia, emergerebbero anche delle implicazioni negative per la crescita: il calo dell’immigrazione determinerebbe un indebolimento della crescita della popolazione. A causa della maggiore incertezza sul fronte degli scambi commerciali, esiste anche il rischio che le aziende investano di meno. L’aumento dei dazi, e di conseguenza dei prezzi, potrebbe inoltre portare a un calo dei consumi.

2. Inflazione

Un secondo mandato di Trump potrebbe avere ampie conseguenze reflazionistiche – ossia il livello dei prezzi negli USA potrebbe rimbalzare nel contesto di una maggiore solidità dell’economia e dei consumi privati. Questo è in parte dovuto al deficit di bilancio presumibilmente più alto con uno stimolo della domanda positivo, e in parte al calo dell’immigrazione e al conseguente rischio di ulteriori carenze sul mercato del lavoro (maggiore pressione salariale dovuta alla carenza di manodopera). In ultimo, ma non per importanza, anche l’aumento dei dazi potrebbe far salire l’inflazione. Un ridotto effetto disinflazionistico potrebbe derivare dal calo dell’immigrazione (meno immigrati, meno domanda di alloggi e, dunque, meno pressione sull’inflazione degli alloggi e degli affitti).

3. Tassi d’interesse

Tra il 2017 e il 2018 (durante il primo mandato di Trump, quando aveva pieno controllo del Congresso), i tassi di interesse (in questo caso i rendimenti obbligazionari) si sono mossi al rialzo. Anche se Trump vincerà una seconda elezione, i tassi potrebbero salire a causa della maggiore crescita economica, dell’aumento dell’inflazione e della prospettiva di un Congresso controllato dai Repubblicani. Tuttavia, l’incertezza sul fronte degli scambi commerciali e la politica estera orientata verso la pressione massima potrebbero limitare il potenziale di rialzo.

4. Dollaro USA

La combinazione di crescita economica più solida, inflazione più elevata e incertezza sul fronte commerciale implica dei rischi al rialzo per il dollaro USA. Su questo punto, la funzione di reazione della Fed avrebbe un ruolo cruciale. Il requisito essenziale per il rafforza mento del dollaro è che la banca centrale intraprenda un’azione decisiva contro l’inflazione elevata (ossia alzi i tassi di interesse). In caso contrario, se rimarrà ferma a guardare l’inflazione in aumento, sarà più probabile che il dollaro venga penalizzato.

 

 

Le possibili conseguenze di un’amministrazione Trump 2.0 sui mercati finanziari

È importante ricordare che le asset class sono influenzate da fattori come il ciclo economico globale, influenzato a sua volta da numerosi altri fattori oltre al semplice esito delle presidenziali USA.

1. Azioni

Il passato insegna che mercati azionari spesso si muovono lateralmente alla vigilia delle elezioni. Questo non ci sorprende: le campagne elettorali sono tipicamente accompagnate da incertezze sul futuro andamento politico, e gli investitori azionari non amano l’incertezza. Una volta decretato il vincitore, i mercati generalmente hanno guadagnato terreno – anche in caso di non rielezione del Presidente uscente. Un ulteriore taglio delle imposte potrebbe avere un impatto positivo sugli utili per azione (grafico 4). Al contempo, gli investitori dovrebbero prepararsi a una maggiore volatilità sul mercato azionario (analoga al 2019) dovuta alla politica più imprevedibile. Nell’ambito dell’asset class, le azioni dei mercati sviluppati sono destinate a trarre il maggior beneficio. La guerra commerciale potrebbe creare delle difficoltà per le azioni di alcuni mercati emergenti.

2. Obbligazioni

Le obbligazioni potrebbero attraversare qualche difficoltà. Se da un lato l’asset class trarrebbe vantaggio dal rafforzamento del dollaro, la combinazione di crescita, inflazione e tassi di interesse più elevati eserciterebbe un impatto negativo. Un’economia più solida rende le azioni più interessanti rispetto alle obbligazioni dal punto di vista degli investi tori. L’inflazione più elevata riduce il potere d’acquisto dei flussi di cassa futuri delle obbligazioni. L’aumento dei tassi di interesse determina una perdita di valore delle obbligazioni in circolazione.

3. Investimenti alternativi

Se un secondo mandato reflazionistico di Trump sarà confermato, anche le materie prime potranno beneficiarne. Una maggiore crescita economica dovrebbe, inoltre, favorire le asset class cicli che. Se da un lato l’oro potrebbe essere temporanea mente favorito dalla maggiore incertezza geopolitica, l’aumento dei tassi di interesse e un dollaro USA più solido potrebbero penalizzare il metallo giallo (i tassi di interesse reali e il dollaro USA, in genere, si muovono nella direzione opposta rispetto all’oro).

Correnti mutevoli dell’economia e lo sfuggente «anno delle obbligazioni»

Inizialmente gli investitori si aspettavano che il 2024 sarebbe un anno di rallentamento della crescita, calo dell’inflazione e ampi tagli dei tassi. Ad oggi sembra piuttosto un anno di crescita solida, pressioni inflazionistiche persistenti e un approccio più graduale e tardivo alla normalizzazione della politica. Quello che doveva essere «l’anno delle obbligazioni» non si è ancora dimostrato tale … per ora.

Diversi settori dell’economia USA continuano a evidenziare stabilità, nonostante il forte inasprimento della politica monetaria. Il mancato arrivo di una recessione ha indotto il mercato a prevedere un’inflazione vischiosa. Il Team Multi Asset dubitava che l’inflazione sarebbe scesa velocemente come prevedeva il mercato non troppo tempo fa – dicendo che l’ultimo chilometro è sempre il più difficile.

Molto dipenderà dai dati dei prossimi mesi, tra cui le tempistiche e il numero dei tagli dei tassi che saranno effettuati quest’anno. Gran parte dei funzionari della Fed ne prevede due o tre. Tuttavia, una prolungata assenza di miglioramenti sul fronte dell’inflazione, aspettative inflazionistiche fuori controllo o un calo inatteso sul mercato del lavoro potrebbero modificare la situazione. Il grande cambiamento nelle aspettative di mercato riguarda l’entità dei tagli. All’inizio del 2024, era scontata una probabilità del 10 % che entro fine anno il tasso sui Fed Fund sarebbe stato pari o inferiore al 2 %. Ma da allora questa probabilità è stata ridotta e il mercato sembra scontare uno scenario economico favorevole. Oggi le opzioni scontano una probabilità del 30% che il tasso sui Fed Fund a fine anno sarà del 4 – 5 %, con possibilità che superi il 5 %.

Prudenza sul credito

Gli spread rettificati per le opzioni sui Treasury USA, che riflettono la differenza di rendimento tra obbligazioni sovrane e corporate, sono un comune indicatore del rischio di default. La forte compressione degli spread del credito IG ha considerevolmente ridotto il margine di sicurezza del credito. Oggi gli spread rappresentano meno del 20 % del rendimento totale dell’Indice Bloomberg US Corporate Bond.

 

Le valutazioni elevate inducono alla prudenza in questo segmento. Il premio al rischio dell’high yield è salito a 329 pb dopo essere sceso sotto i 300 lo scorso mese, il livello più contratto in quasi tre anni. In questo contesto incerto, le obbligazioni high yield potrebbero finire sotto pressione. Le aspettative di un aumento dei default, insieme a una politica monetaria restrittiva, potrebbero penalizzare il segmento. L’attuale valutazione degli spread high yield USA implica tassi di default molto moderati e l’assenza di un rallentamento a breve.

Gli utili riusciranno a sostenere le azioni?

Dopo quasi cinque mesi di performance stellare, da fine marzo i mercati azionari sono in fase di consolidamento. Gli investitori si pongono molte domande. La stagione degli utili contribuirà a tenere alto l’azionario? La crescita economica resisterà ai rendimenti elevati, sfidando il mantra della Fed «più alti più a lungo» dovuto all’insoddisfazione per i progressi fatti nel contenere l’inflazione?

 

Da ottobre, il re-rating delle valutazioni sta trainando la performance dei mercati azionari, grazie alle buone notizie previste – da una politica monetaria meno restrittiva alla prospettiva di un soft landing. Il risultato? Negli USA, l’Indice S&P 500 ha chiuso sopra la media mobile su 50 giorni (prezzo medio di chiusura negli ultimi 50 giorni di trading) per oltre 160 giorni consecutivi, la serie più lunga dalla crisi finanziaria globale. Dal 1945, questo fenomeno è successo solo in rare occasioni.

Tuttavia, i tre mesi consecutivi di inflazione più alta e i dati sulla spesa al consumo più solidi del previsto negli USA, insieme alle tensioni nell’Est Europa e in Medio Oriente (che hanno determinato un rincaro dell’energia) sono bastati a riaccendere il timore dell’inflazione.

La narrativa «più alti più a lungo» della Fed e la sua posizione aggressiva hanno fatto salire i rendimenti, ricalibrando l’aspettativa di tagli dei tassi imminenti. A inizio anno, i mercati scontavano fino a sette tagli dei tassi per il 2024, già a partire da marzo. Alla data di redazione del presente documento, se ne prevedono meno di due, e non prima del terzo trimestre. La politica delle banche centrali è tornata quello della scorsa estate e si è nuovamente nelle prime fasi di una correzione più ampia? Probabilmente no. Innanzitutto, alla luce dell’inflazione più elevata, del differimento della virata e del sentiment rialzista degli investitori a fine marzo, un consolidamento non sorprende.

Statisticamente, dal 1920 è stato osservato in media tre/quattro arretramenti del 5% l’anno o più. Inoltre, per le banche centrali c’è una grande differenza dallo scorso anno: il grosso del lavoro è già stato fatto perché la crescita economica è globalmente in ripresa. Questo indica che ci si sta avvicinando all’inizio di un nuovo ciclo economico. In questo caso, la stagione di reporting appena avviata potrebbe proseguire, come gli ultimi trimestri, con altre sorprese sugli utili, che a loro volta supporterebbero le azioni.

A sostegno di questa view, le revisioni degli utili globali, seppur in territorio negativo, sembrano aver preso una traiettoria rialzista.

Petrolio in rialzo e oro in corsa

Da ottobre 2023, tutti i riflettori sono puntati sul conflitto Israele-Hamas. Tre erano i possibili scenari delineati dal Multi Asset team: uno in cui il conflitto rimane confinato a Israele e Hamas, un altro che vede l’entrata in scena di Hezbollah e un terzo in cui la «guerra ombra» tra Israele e Iran si trasforma in un conflitto più diretto. A metà aprile si è concretizzato il terzo scenario, quando l’Iran ha mandato droni e missili in Israele in risposta a un attacco di quest’ultima al suo consolato in Siria all’inizio del mese (non ufficialmente rivendicato da Israele).

L’attacco ha segnato una nuova fase nel conflitto e ha spinto i prezzi del petrolio temporaneamente sopra la soglia di 90 dollari al barile.

In futuro, tanto dipenderà da come evolverà il conflitto. In assenza di ulteriori escalation, l’attenzione prima o poi tornerà ai driver più importanti (offerta, domanda, ecc.), ma i mercati in generale potrebbero continuare a prestare particolare attenzione agli eventi geopolitici

Se invece ci saranno ulteriori escalation, si potrà aspettare un rincaro del petrolio (o addirittura uno shock dei prezzi). In caso di shock, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio e i suoi alleati (OPEP+) potrebbero accorrere in aiuto, disponendo di una capacità di produzione in eccesso di circa 5 milioni di barili al giorno. In questo momento, molti stakeholder si stanno adoperando per calmare le acque. Il Presidente degli USA Joe Biden ha garantito supporto al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, pronunciandosi tuttavia a sfavore di un attacco ritorsivo, al quale con tutta probabilità gli USA non parteciperebbero. Anche il Ministro degli Esteri saudita ha espresso preoccupazione per l’escalation mili tare nella regione e ha invitato tutte le parti in causa ad esercitare grande cautela. 

Le ragioni alla base della recente corsa dell’oro non si limitano alla situazione geopolitica. Il metallo giallo ha toccato un massimo dopo l’altro, nonostante l’aumento dei rendimenti reali USA e la solidità del dollaro (che spesso rappresentano un ostacolo). Una spiegazione molto gettonata è la robusta domanda dalle banche centrali dei mercati emergenti (Cina e India hanno acquistato oro a ritmo sostenuto). Ma potrebbe essercene un’altra: il mercato sa qualcosa che gli investitori non sanno. Se si analizza la performance recente di oro e Bitcoin, non si può non notare che sono strettamente correlati: la variazione di un punto percentuale nell’oro equivale a una variazione del 5 % circa nel Bitcoin. E questo è sorprendente, perché sono spesso considerati «competitor». Una possi bile conclusione? I mercati sono sempre più preoccupati dell’enorme quantitativo di liquidità nel sistema e si riversano su fonti di valore alternative.

Il dollaro guadagna terreno con il cambio di marcia sui tagli

I primi mesi del 2024 sono stati frustranti per i ribassisti del dollaro. Finora, lo US Dollar Index ha guadagnato circa il 5% sulla scia delle aspettative del mercato – che sono passate fino a sette tagli dei tassi della Fed a meno di due. Una nuova ondata di avversione al rischio si sta inoltre facendo strada nei mercati, amplificando i progressi del dollaro.

La possibilità di ulteriori rialzi dai livelli attualmente già elevati è comunque limitata. Se i dati indicheranno che la Fed si limiterà a ritardare il primo taglio di qualche mese, procedendo comunque a ridurre i tassi nel corso di quest’anno e del prossimo, i ribassisti del dollaro potrebbero presto avere la meglio.

Tuttavia, se la Fed indicherà che quest’anno i tassi potrebbero rimanere invariati o che sarà necessario un ulteriore inasprimento, il recente rally del dollaro potrebbe proseguire. Questi sviluppi metterebbero in luce la tendenza al rafforzamento del dollaro in risposta ai segnali di politica monetaria della Fed.​

 

Stimolo geopolitico di breve durata per il franco svizzero

La nuova ondata di tensioni geopolitiche ha supportato il franco svizzero ma i fondamentali sottostanti rimangono invariati: la Banca Nazionale Svizzera (BNS) affronta un significativo rischio dovish, con un ulteriore potenziale di ribasso per il franco. Nonostante l’indebolimento dell’inflazione dei prezzi al consumo in Svizzera, i mercati continuano a prevedere un ciclo di allentamento limitato dalla BNS, scontando due soli altri tagli nel corso dell’anno che porteranno il tasso di riferimento all’1 %.

L’inflazione svizzera ha rallentato inaspettatamente, corroborando la decisione della BNS di tagliare i tassi lo scorso mese. La banca ha infatti sorpreso gli investitori riducendo il tasso di riferimento ed è stata la prima a farlo tra le banche centrali del G-10 dal picco dell’inflazione globale.

A marzo i prezzi al consumo in Svizzera sono saliti solo dell’1 % su base annua, l’incremento più ridotto in due anni e mezzo, contro l’1,3 % previsto dagli economisti. Il calo dell’inflazione è stato generalizzato, a indicazione che le pressioni inflazionistiche in Svizzera si stanno allentando più rapidamente del previsto. Il presidente uscente della BNS Thomas Jordan ha affermato che esiste un «rischio molto ridotto» che l’inflazione superi il limite del 2 % del target della banca centrale. La BNS aveva precedentemente previsto una moderata accelerazione dell’inflazione nel secondo e terzo trimestre, principalmente trai nata dai previsti aumenti delle locazioni.

 

 

I rendimenti passati non sono un indicatore affidabile dei risultati futuri.

Frank Häusler, Chief Investment Strategist

Stefan Eppenberger, Head Multi Asset Strategy

Christopher Koslowski, Senior Fixed Income & FX Strategist

Mario Montagnani, Senior Investment Strategist

Michaela Huber, Cross-Asset Strategist

Rischi

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